Miquela (@lilmiquela per darle un’occhiata su Instagram) è una modella-influencer come ce ne sono tante. Straordinariamente bella, con i suoi grandi occhi marroni, le lentiggini sugli zigomi, le acconciature mai lasciate al caso. Posa annoiata di fronte all’obiettivo, con quella nonchalance imbronciata, facendo finta di non sapere di essere fotografata -come impone l’etichetta estetica contemporanea all’interno dei social network immaginifici- ammicca ingenuamente in qualche contesto urbano della California, negli eleganti showroom di design o mentre si prepara per feste esclusive.
Le sue foto sono cliccatissime dalle fan adoranti (dette “miquelites”), e non mancano quindi i brand disposti a promuoversi attraverso gli scatti di questa dolce fanciulla. Giacche Martin Rose, scarpe Balenciaga… i marchi sono sempre bene in vista, pronti ad essere polliciati distrattamente. Borsa Chanel in galleria d’arte, scarpe Vans per un giro in skate…una vita quotidiana invidiabile, che le teenagers sognano di raggiungere anche attraverso i valori dei marchi che vengono associati a specifici stili di vita. Una pratica di advertising non ancora perfettamente regolata dal punto di vista legislativo ma ormai diffusa in tutti gli angoli del globo coperti da banda larga. Sembra che esistano quasi un milione di influencer su Instagram, o almeno aspiranti tali, ma la nostra Miquela è speciale, è unica. Miquela non esiste, è frutto esclusivo della computer grafica.
Miquela “nasce” nel 2016 e fin dall’inizio un certo mistero aleggia intorno alla sua figura: scherzo di qualche programmatore? Tutta una trovata di marketing? Una particolare performance artistica? Miquela all’inizio sembrava una bambola capitata per caso in un videogioco; poi, col tempo (e grazie alla maestria dei suoi graphic designer) è diventata sempre più realistica, al punto da sfiorare i bordi della cosiddetta “valle perturbante”, teoria sviluppata in Giappone secondo la quale la sensazione di familiarità generata da un robot antropomorfo aumenta fino ad un certo punto; poi si trasforma in repulsione.
A un certo punto la rivelazione: Miquela confessa di essere un prodotto virtuale (generato dalla startup hi-tech Brud) e si scaglia contro i suoi stessi creatori (sic!) per averle nascosto la verità. Miquela oggi, nel 2018, non è più la sola influencer virtuale. Può sembrare strano e in un certo senso innocuo ma queste personalità, oltre ad avere un discreto seguito, sono ricercatissime dall’alta moda per sponsorizzare i propri prodotti: ne è la prova una dichiarata top model virtuale, Shudu, creata dal fotografo di moda Cameron-James Wilson e diventata famosa dopo i primi “scatti”. A quanto pare la richiesta di supermodelle digitali viene proprio dai brand più popolari ma questo successo suscita non poche questioni, tra le quali quella della credibilità. Com’è possibile, ci si chiede, fidarsi della parola di qualcuno che non esiste e dunque nemmeno indossa il capo in questione?
Se le “modelle inesistenti” saranno efficaci come l’Agilulfo di Calvino, il cavaliere composto solo dalla lucida armatura vuota, a questo punto anche l’influencer potrà essere considerato un lavoro a rischio automazione. Fino a che punto si spingeranno gli sviluppatori e gli investitori? Di certo non sono incentivati a fermarsi, a giudicare dal numero di followers in continua crescita e, dall’altra parte, da una fumosa legislazione in merito agli annunci on-line. Dobbiamo rassegnarci: la prossima Chiara Ferragni sarà un robot. A meno che i nostri influencer, quelli in carne ed ossa, non dimostreranno di essere qualcosa di più di manichini virtuali.