L’AI fa mansplaining? Il rapporto tra editoria, linguaggio e intelligenza artificiale
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L’AI fa mansplaining? Il rapporto tra editoria, linguaggio e intelligenza artificiale

In un settore saturo come quello dell’editoria contemporanea, in cui la produzione di libri non è mai stata così elevata e le opportunità lavorative così rare e mal retribuite, l’implementazione dell’intelligenza artificiale nella catena di produzione libraria si colloca in una posizione scomoda per creativi e professionisti. L’esponenziale crescita della tecnologia generativa, per quanto strumento utile, mette a rischio il lavoro degli autori e pone la questione sui temi della difesa del diritto d’autore e i limiti della collaborazione tra creatività umana e l’utilizzo della macchina.

E se nella maggior parte dei testi pubblicati negli ultimi anni compare sempre più spesso il disclaimer “nessuna parte di questo libro può essere usata o utilizzata con l’intento di allenare tecnologie o sistemi di intelligenza artificiale” non mancano nemmeno testi che sono stati scritti con l’aiuto di tali tecnologie. Un esempio -che ironicamente riporta proprio questa dicitura all’interno del colophon- è il vincitore del prestigioso premio letterario giapponese Akatugawa 2024, Tokyo Sympathy Tower di Rie Qudan (Ippocampo, 2025). Dopo aver vinto il premio, l’autrice ha confessato di essersi servita dell’uso dell’AI per la stesura del libro, sollevando polemiche non indifferenti, sebbene il suo utilizzo ricopra solo il 5% del testo e le frasi generate tramite l’utilizzo dell’AI siano chiaramente identificate e citate, e impiegate per enfatizzare la mancanza di spirito critico ed empatia da parte della tecnologia. In un futuro prossimo alternativo la giovane architetta Makina Sara si è aggiudicata il progetto per una torre-prigione dove i detenuti verranno accolti con estrema cura, affinché il loro status di homo miserabilis (uomo degno di empatia), cui sono giunti in quanto vittime di un passato avverso, sia riscattato da una diffusa empatia sociale.

Se a distinguere gli umani dagli animali non è il linguaggio ma la capacità di provare empatia, il come il linguaggio viene utilizzato gioca un ruolo fondamentale nella distinzione tra umano e macchina.
La riflessione sul linguaggio contemporaneo, che tende allo svuotamento di significato in favore di praticità ed economia linguistica, è perfettamente riassunta dal modo di comunicare e di ragionare della protagonista e dell’intelligenza artificiale.
L’architetta è costantemente scissa sull’alfabeto da utilizzare per dare un nome alla torre: è restia a utilizzare un linguaggio che non le appartiene, il katakana, usato principalmente per trascrivere parole di origine straniera; ma allo stesso tempo sostiene che l’hiragana e i kanji, con i loro significati intrinseci, siano troppo rigidi e austeri e promuovano un senso di distacco. Se la torre-prigione deve essere un luogo accogliente, la lingua, allo stesso modo, ha il compito di riflettere questo concetto e servire il medesimo scopo attraverso il significato del nome. L’intelligenza artificiale, al contrario, pare priva di ragionamento sul significato delle parole e dei concetti: “Questa tendenza al mansplaining, con un continuo flusso di informazioni non richieste, è un aspetto che non sopporto. Non le interessano le storie di dolore e sofferenza dietro al termine ‘discriminazione’. Non prova vera curiosità, non desidera ‘conoscere’.”

La cura del linguaggio e l’empatia sono le qualità che contraddistinguono un’opera letteraria di livello elevato da un mero testo informativo e privo d’anima, e questo romanzo ne è la prova concreta: l’intelligenza artificiale è sicuramente uno strumento utile e d’aiuto nella produzione letteraria e libraria, ma possiede dei limiti che non possono essere ignorati. La macchina è in grado di fornire una forma, persino un contenuto ricco e puntuale, ma non potrà mai padroneggiare un linguaggio pieno di significato ed empatia.

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