Truth Well Told, la verità ben raccontata, e molto altro…
Come si può attualizzare questa frase in un contesto delicato fra greenwashing e ritorno d’immagine?
Una “verità ben raccontata” deve anzitutto rispondere al criterio della veridicità: in questo ambito, qualsiasi distorsione o ambiguità possono avere effetti devastanti sulla reputazione di un marchio -o brand, che dir si voglia. Lo storytelling sul piano etico deve poggiare le sue fondamenta su valori del brand consolidati e riconosciuti, su iniziative concrete e informazioni accessibili. Le parole chiave, a mio avviso, sono “coerenza”, “trasparenza” e “misura”. “Misura” perché l’esigenza di promuovere il marchio e i suoi prodotti non viene meno e spostare eccessivamente la comunicazione sul piano della sostenibilità, soprattutto se non adeguatamente supportata da evidenze concrete, potrebbe paradossalmente apparire una scelta artificiosa e opportunista. Il termine “greenwashing” infatti è nato proprio perché negli ultimi anni il riferimento al tema della sostenibilità è aumentato in misura esponenziale in ambito pubblicitario -purtroppo, senza essere accompagnato da un proporzionale incremento della reale sostenibilità di moltissimi prodotti e servizi.
“Coerenza” e “trasparenza” sono requisiti imprescindibili laddove si intrecciano leve promozionali e delicati meccanismi di salvaguardia dell’immagine e della reputazione del marchio. È quindi fondamentale che al consumatore sia chiaro il nesso tra le iniziative promosse e i valori, la storia e la mission di cui il brand si fa da sempre portatore, in modo da garantire una maggiore autenticità alla comunicazione. Accanto ai contenuti comunicati (caratteristiche dei prodotti o servizi, progetti o iniziative dedicate, etc.), è essenziale adottare un linguaggio non dissonante dal tone of voice del brand, senza tuttavia trascurare la sobrietà richiesta dalla sensibilità dei temi trattati. Infatti, se fare leva sulla componente emotiva della comunicazione è sempre importante, è altrettanto rilevante adottare un linguaggio accessibile e sintonico su tutti i canali di comunicazione.
Quanto è importante, nel campo della comunicazione, una figura che sia in grado di avere uno sguardo sulla totalità del processo della creazione di un progetto?
Il modo di lavorare all’interno delle agenzie e delle società che si occupano di comunicazione è cambiato moltissimo negli anni, parallelamente all’adozione di strumenti (software e metodologie) che favoriscono la collaborazione interdisciplinare. Oggi è molto importante possedere un set di competenze diversificate, per poter meglio dialogare con tutti quei professionisti che hanno profili molto diversi dal nostro: per esempio, è un grande vantaggio avere basi di coding e di SEO quando è necessario confrontarsi quotidianamente con un team di sviluppatori.
Questo naturalmente ci consente di avere una visione e una padronanza molto più estesa del processo di creazione di valore: se conosco i vincoli (e le opportunità) che possono limitare (o agevolare) il lavoro dei miei colleghi, sarò in grado di proporre soluzioni che tengano in considerazione anche questi aspetti, con ricadute positive molto significative sull’intero processo. Parallelamente, bisogna considerare l’esigenza dei clienti di essere presenti su una pluralità di canali, garantendo sempre la “consistency” dell’identità e del posizionamento del brand.
Qui si richiede la capacità di utilizzare competenze molto diverse, sia in ambito offline che online: art direction, graphic e visual design, user experience e user interface design, brand positioning e competitive benchmarking, comunicazione corporate, social media marketing, email marketing, programmi loyalty, tecniche di gamification, e così via. Non è indispensabile (né realistico) che un professionista raggiunga una padronanza assoluta di tutti gli strumenti esistenti, ma è importante che non smetta di evolvere, aggiornandosi ed arricchendo il proprio profilo di nuove conoscenze per meglio comprendere e gestire la complessità della comunicazione multicanale.
Riusciremo mai a trovare un punto di incontro e imparare a utilizzare in maniera sostenibile l’intelligenza artificiale?
Forse è ancora presto per comprendere tutte le conseguenze dell’avvento dell’Intelligenza Artificiale, in questo come in altri settori.
Tuttavia, alcuni effetti ricadono entro la sfera del nostro controllo: che uso ne faremo, come professionisti? Che uso ne faranno le aziende? In questo caso sarà determinante la nostra intelligenza, più di quella artificiale. Che, ricordiamolo, aldilà del nome affascinante, è più che altro uno strumento di automazione basato su algoritmi complessi. Attualmente, l’AI presenta molti limiti: senza sollevare la questione macroscopica dei diritti d’autore, l’attendibilità delle fonti e la correttezza delle informazioni restituite sollevano più di un lecito dubbio.
Oltretutto c’è un importante tema legato ai fortissimi bias culturali dell’AI -ricordiamo che, come riportato dall’”Internet Health Report 2022”, il 60% dei dati che alimentano l’AI proviene dagli Usa: ne consegue una rappresentazione della realtà fortemente sbilanciata. Illuminante in tal senso è la recente campagna di TBWA Italia che ha verificato la rappresentazione di alcuni soggetti con Midjourney, ottenendo sempre uomini e donne bianche dai tratti caucasici (in taluni casi, come per la rappresentazione di leader e ricercatori, soltanto uomini). Tuttavia, nell’arco di alcuni anni, molti di questi aspetti potrebbero migliorare significativamente, considerando anche che molti altri Paesi stanno lavorando su progetti legati all’AI. Dunque, come utilizzare l’AI in modo sostenibile e intelligente nel nostro lavoro quotidiano? Avendo sempre ben presenti i limiti appena menzionati, penso che sia importante ribaltare la prospettiva e non considerare l’Intelligenza Artificiale come un ‘erogatore di soluzioni’: l’output dell’AI può in realtà essere un ulteriore input, uno spunto, uno stimolo alla nostra attività e alla creatività. Un punto di partenza, insieme a molti altri, più che un punto di arrivo.
Alcuni esempi pratici? L’AI può aiutarci a fare brainstorming e suggerire percorsi di approfondimento su un soggetto di ricerca. Può integrare le attività di user research e di testing, dandoci una prospettiva differente che metta in discussione i nostri assunti. Può persino favorire il pensiero laterale, in questo senso. Ma ricordiamo sempre che per ottenere risposte utili occorre saper porre le domande giuste. Cosa che a sua volta richiede un’adeguata preparazione, poiché improvvisazione e approssimazione rischiano di rivelarsi deleteri sia per l’intelligenza artificiale che per quella umana.
Mediastars propone di mettere in luce il valore della professionalità di chi contribuisce con il proprio apporto alla riuscita di un progetto di comunicazione.