Chat GPT, l’AI capace di comprendere il linguaggio naturale e di imitare la creatività umana, minaccia davvero di rubarci il lavoro e ridurre la nostra professione di artigiani della comunicazione a un ricordo? Ti stai già affidando a questi strumenti?
Il paragone che viene spesso fatto, parlando di mansioni umane sostituite dalle macchine, riporta indietro ad epoche passate: la stampa a caratteri mobili ha spazzato via la nobile arte degli amanuensi, così come la più prosaica lavatrice ha tolto il lavoro a tutta la categoria delle lavandaie. E, non me vogliano i più “luddisti”, quei progressi tecnologici sono stati delle vere rivoluzioni sociali che hanno portato a una maggiore diffusione dei libri e della cultura, la prima, e al venir meno di un’incombenza oltremodo faticosa per le donne, la seconda. Ma c’è un’enorme differenza con ciò che stiamo vivendo parlando di intelligenza artificiale generativa, che secondo alcuni rischia di sostituire il lavoro dei professionisti della scrittura, del copywriting e della comunicazione.
Nei due esempi precedenti, infatti, l’output realizzato dalle macchine era non solo più efficiente e scalabile, ma anche tremendamente migliore a livello di qualità.
Con ChatGPT non è così: lo sto utilizzando e studiando fin dall’inizio per ovvie ragioni di curiosità professionale e l’output, sebbene si stia raffinando, resta sempre grossolano. Nonostante dei prompt precisi e ben strutturati, si ottengono quasi sempre testi elementari, sintatticamente discutibili, con scelte semantiche che ricalcano costantemente gli stessi pattern, aggettivi e verbi ripetitivi, costruzioni errate come i gerundi usati “all’inglese” dove in italiano avremmo una relativa… potrei andare avanti a elencarne a bizzeffe di imprecisioni e mancanze di stile.
E non voglio assolutamente fare la retrograda, al contrario: trovo questo genere di strumenti affascinante e utile, ma non si può pensare che vadano a sostituire in toto l’attività umana perché, in questo caso, si tratta di un’attività intellettuale, creativa, che necessita di stile e ragionamento, non una mera azione meccanica di assemblaggio statistico di termini.
ChatGPT e i suoi simili, come Gemini, sono degli ottimi tool per informarsi in modo macro su un tema, per avere risposte semplici o imbastire discorsi elementari, da cui partire per poi costruire qualcosa di davvero incisivo, umano e stilisticamente pregevole.
Queste tecnologie possono rappresentare effettivamente un aiuto per il mercato? L’intelligenza artificiale può effettivamente dare un aiuto, per quanto riguarda l’inclusività anche delle persone con disabilità fisica?
Qui si apre davvero un mondo di innovazione capace di rendere il mondo più semplice da esperire per coloro che hanno abilità diverse dalla media. Ne cito alcune che sono ormai sotto i riflettori da anni: le auto a guida autonoma potrebbero essere un incredibile mezzo di libertà e autonomia per persone con mobilità limitata o ipovedenti.
E anche i progressi della conversione voce-testo e testo-voce vanno in questa direzione, rendendo la comunicazione più facile per tutti, dagli ipovedenti a coloro che soffrono di disturbi dell’udito. In questo senso, un progetto molto interessante è quello che sta portando avanti DeepMind di Google, ne ho letto di recente: grazie all’AI sarà possibile “leggere le labbra” in tempo reale in situazioni pubbliche, per restituire un output visivo immediato agli ipoudenti.
Per non parlare dei tanti progetti europei di grande valore in campo medicale, per facilitare la comparazione di dati e immagini in modo da velocizzare le diagnosi e mettere a fattor comune le cartelle cliniche degli ospedali dell’UE.
Ecco perché è importante, a mio avviso, smettere di ridurre l’AI al solo ChatGPT: quest’ultimo è lo strumento che abbiamo tutti a portata di mano ma è ben lontano dall’essere espressione del pieno potenziale di queste tecnologie, che possono davvero migliorare la vita delle persone.
Parlando invece di Metaverso, alcune aziende hanno già pensato di utilizzare questa tecnologia per personalizzare progetti all’interno del Metaverso con ambienti promozionali per eventi dedicati.
Hai mai visto applicare questi metodi in reali situazioni aziendali? Credi che sia una prospettiva di sviluppo realistica per la comunicazione?
Per rispondere in modo semplice alla domanda, sì, devo ammettere che ho visto applicazioni davvero ben fatte di “metaversi” aziendali: mi è capitato anni fa di partecipare a una fiera virtuale davvero notevole, con stand e interazioni così ben fatte su piattaforma da dare l’illusione di esserci davvero. Oppure, ho partecipato a un paio di convention virtuali in periodo di pandemia che mi hanno stupita per la loro immersività.
Confesso, però, che non ho un’opinione altissima del Metaverso, è un fenomeno che ho vissuto come una meteora, in auge due o tre anni fa e poi subito svanita dai radar dell’interesse comune. Sarà che ho visto troppe volte “Ready Player One” ma l’idea di digitalizzare un mondo alternativo in cui rifugiarsi e fare esperienze non mi fa impazzire. Siamo già abbastanza immersi in una pletora di canali, comunicazioni e relazioni digitali; forse dovremmo tornare a fare esperienza del mondo reale, sollevando il naso dallo schermo dello smartphone ed evitando di alimentare pure il consumismo virtuale degli NFT. E lo dico da Millennial un po’ nerd, appassionata di fantascienza e che con il digitale ci lavora, quindi capisco che possa suonare strano, ma a volte ritengo che il vero “metaverso”, il vero universo alternativo in cui rifugiarsi per trovare valore, sia un realissimo e solitario sentiero di montagna. Con buona pace dei marketer e della società dei consumi.
Mediastars propone di mettere in luce il valore della professionalità di chi contribuisce con il proprio apporto alla riuscita di un progetto di comunicazione.